giovedì 15 settembre 2011

L'utopia dei giardini di Corso Venezia

Pochi stentati passi


di là da collerici colletti allentati


Il verde riarso dei platani


adombra un mondo di cartone






Clochards improvvisano un cenacolo


traggono stille d'acqua dalla fonte


La chimera meccanica,


nel trionfo del suo ottone canuto,


gliene fà dono






Bivaccano e riposano su panchine di smeraldo spento


Alcuni, retti su quei triclini,


pontificano con la nenia della loro lingua berbera




Altri divorano con bramosia libri di Hosseini,


mentre altri, in barba ai precetti di un dio loro


- forse non poi così diverso dal nostro -


incendono col vino


Ignoro se agiscano intimamente


come persuasi d'esser fregiati di Mujtahed


e dunque di poter giustificare la loro interpretazione,


ondivaga e sospirata,


con una Ijtihad rubata.




Augelli più simili a ratti,


fan banchetti di briciole.


Esse scivolano ratte, lontane


dalle bocche voraci


per poi cadere dolci al suolo


come stemi cullati dal vento.






Il rumore della città giunge


come ovattato e distante


in realtà esso pulsa qui vicino


Loro non lo percepiscono




Qui dubbi non piovono


società e dilemmi si fan piccoli di fronte


alla benvolente brama d'istinto vitale,


al passo incerto del piacere terreno


che passeggia


scalzo su rovi di miseria




Io non giudico


sol guardo osservo penso

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