Dolci come chiome tornano illibate
a stroncarsi, a finir la vita
contro le rive le onde fatate
dall’orrenda routine di tempi, contrita.
Risponde di lontano il leggio dei monti
disegnato di I appuntite dal velluto
di prati recisi dal vento sotto i ponti
d’alberi nicchie di tempo perduto.
Scappato come un ladro vivo
nell’ansia dell’infinito parco della prigione,
necessito d’ignorarli stando in mezzo, schivo
a loro ed al loro sano uccidersi di squilli e missive in missione.
Nel silenzio non trovo risposte
solo altri rumori più delicati
a distrarmi dal suono delle candele imposte
sul tavolo delle mie storie di dolci dannati.
Merito il rimprovero d’un Dio, d'altronde
fisso lo sguardo sull’applauso delle onde
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